George Byron
Lord volubile e stravagante


di Luciano Sterpellone

Dopo anni di studio a Harrow e a Cambridge, non riesce a prendere una laurea. Non perché sia uno studente scapestrato, ma più semplicemente per la sua passione ossessiva, patologica, per la lettura di ciò che più gli interessa. A quindici anni, ha già letto circa 4.000 novelle e cominciato a scrivere versi.

E non devono essere proprio male, se a diciannove anni (nel 1807) un editore gli pubblica una raccolta di poesie, Ore di ozio.

Il carattere ribelle e i comportamenti strani del giovane lord Byron si rifletteranno immancabilmente sulla sua vita e sulle sue opere. Turbolento, irascibile, impulsivo, indisciplinato, volubile, stravagante, è “costituzionalmente” restìo a pianificare, in modo ragionevole, il lavoro e a concentrare l’attenzione su qualcosa che lo attragga del tutto, con una spiccata fobia per i legami stabili: avrà un matrimonio molto breve e numerosi figli al di fuori di esso.

Proprio per queste caratteristiche, lo scrittore interessa da vicino gli psichiatri, molti dei quali lo inquadrano nell’ambito della psicosi maniaco-depressiva, riconoscendone i tratti fondamentali negli “alti e bassi” del carattere e dei comportamenti, negli umori esplosivi e improvvisi, spesso seguiti da una profonda e struggente malinconia e da idee suicide, oltre che nelle frequenti fluttuazioni dei ritmi del sonno e della sessualità, per non parlare della sua dedizione all’alcol e del frequente ricorso al laudano (tintura d’oppio). Alcuni odierni studiosi fanno rientrare le caratteristiche psicologiche di Byron in una particolare categoria denominata “disturbo di deficit di attenzione con iperattività” (che, tuttavia, non esclude la precedente diagnosi), tenendo conto di altri aspetti comportamentali dello scrittore: il tipico atteggiamento di distacco dal prossimo, l’assoluta mancanza di gratitudine verso i suoi sostenitori, la totale assenza di riguardo nei confronti dei familiari e non solo, tale da farlo definire “il più grande villano del mondo”.

Sembra impossibile che uno scrittore così raffinato possa essere tanto lontano dall’immaginario collettivo. Eppure, l’autorevole periodico Quarterly Review lo descrive (chissà se troppo crudelmente) come “il poeta della seduzione, dell’adulterio e dell’incesto, il negatore della pietà, il libertino dedito ad ogni tipo di vizio e di nefandezza, tale da disgustare e degradare chiunque gli sta vicino”. Del resto, Byron stesso non manca di confessare che, durante un soggiorno a Venezia, aveva dormito con più di duecento donne. La disistima che lo circonda è tale che, dopo la sua morte, il decano dell’abbazia di Westminster rifiuta la sepoltura del feretro nel locale cimitero e le famiglie dell’aristocrazia – riluttanti a partecipare di persona alle esequie – inviano soltanto “una lunghissima fila (più di quaranta) di splendide carrozze, ma tutte vuote”.

Ai comportamenti di Byron non sono tuttavia estranei due elementi: una certa predisposizione genetica (vanta ascendenti, diretti e indiretti, poco invidiabili) e alcune vicende che accompagnano la sua adolescenza: il padre (noto come “Jack il Pazzo”) è uno scapestrato che dissipa una fortuna e fugge in Francia per non pagare i debiti; la madre è una vera “testa matta”, capace “degli estremi più volgari”, ma incapace di dargli affetto e protezione.

Alla sua malinconia costituzionale, si aggiunge, dalla nascita, la pena di essere zoppo: schermito sin da bambino e poi da studente, ciò costituisce per lui motivo di amarezza e senso di inferiorità per tutta la vita.

Poco dopo aver compiuto i trentacinque anni, il 13 luglio 1823, lord Byron parte per la Grecia infatuato dalla voglia di combattere contro l’oppressione turca, secondo alcuni in un accesso di freudiana destrudo: ma a decretare la sua fine non sarebbero stati i turchi, bensì la malaria, o meglio, i medici che non sanno riconoscerla in tempo. Nel gennaio dell’anno seguente, del tutto ignara di stroncare la vita del maggior letterato inglese dopo Shakespeare, una zanzara avida del suo sangue lo punge nelle campagne di Missolungi. I medici si sbagliano: pensando che si tratti di una febbre reumatica, lo sottopongono – secondo l’immancabile prassi del tempo – a clisteri e salassi.

Lord Byron muore la sera del 18 aprile con il viso coperto di sanguisughe (altro tipo di salasso), dopo aver rivolto (in italiano) al servo la sua ultima battuta: “Lascio qualcosa di allegro in questo mondo”, alludendo alla figlia Allegra.

Finale macabro. Per essere trasportato in Inghilterra, su di un brigantino, il suo corpo viene immerso in un barile pieno di alcol. Giunto a destinazione, il capitano consegna la salma alle autorità e poi vende, ad una ghinea alla pinta, l’alcol in cui essa era stata immersa.

 

Pubblicato da: Redazione AZS

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